Palazzo Leone da Perego – 18 marzo – 25 aprile 2023
Via Girardelli, 10 – Legnano (MI)
Orari visita: sabato, domenica e festivi: 10/12,30 – 15/19
Chiuso il 9/4/23 Pasqua
Visite guidate gratuite su prenotazione ai seguenti recapiti:
T 0331-47157/578 – e-mail: segr.cultura@legnano.org
ROMANO CAGNONI
War and Humanity
di Benedetta Donato
FONDAZIONE ROMANO CAGNONI
Non perdere di vista il lato umano anche nelle situazioni più drammatiche.
Osservando oggi il lavoro di Romano Cagnoni, sembra essere questa la sintesi del suo percorso, caratterizzato dalle tante campagne fotografiche realizzate nei fronti più caldi del mondo. E forse si comprende meglio anche la sua attitudine a non considerarsi fotografo di guerra, bensì un fotografo che sapeva come documentare una guerra, un fotografo e basta.
Dai reportage che hanno fatto scoprire al mondo la tragedia del Biafra e che gli sono valsi le copertine dei magazine internazionali più importanti e il prestigioso Overseas Press Award, al Vietnam del Nord, dove accede come primo fotografo occidentale non comunista, riuscendo a ritrarre un sorridente Ho Chi Minh, fino al Sud America di Fidel Castro e Salvador Allende, per arrivare a territori profondamente compromessi, come quelli dei paesi del Medio Oriente e della ex-Jugoslavia.
Avvenimenti destinati a cambiare irreversibilmente gli equilibri della geopolitica mondiale, che Cagnoni riporta in immagini non finalizzate esclusivamente alla cronaca fotogiornalistica ordinaria, ma andando oltre. Sostando nei luoghi, scegliendo di raccontare le complesse realtà, attraverso i volti e le storie delle persone. Per questo, ancora oggi, le sue fotografie sono in grado di destare stupore in chi le osserva.
Un’esposizione che pone nuova luce sul percorso di questo straordinario autore, sui sodalizi con figure, come Simon Guttmann e Graham Greene, con immagini caratterizzate dal grande impatto visivo ed emotivo, dove ad emergere è il senso di verità profonde, grazie ad una sensibilità rara e tangibile rispetto a temi universali dell’umanità.
Perché, come ha affermato lo stesso autore: «La migliore fotografia per me è un documento umano di impatto visivo. Documento nel senso che si relaziona all’esistenza. Umano perchè racconta lo stato d’animo del prossimo. E tutto questo deve avere un impatto visivo che lo renda memorabile».[1]
[1] Romano Cagnoni, in Maledetti Fotografi, intervista pubblicata nel 2015
Romano Cagnoni (Pietrasanta, 1935-2018).
Fotografo riconosciuto a livello internazionale come uno dei più rappresentativi del ventesimo secolo, fu lo scrittore Harold Evans, già editore del Sunday Times, ad inserirlo tra i più grandi, nel suo libro Pictures on a Page, insieme a Don McCullin, Eugene Smith e Cartier-Bresson.
Famoso per i lavori di documentazione di guerre e conflitti in ogni parte del mondo, le sue fotografie che raccontano la condizione umana in aree di crisi sono finite spesso sulle prime pagine dei giornali e sulle copertine dei più importanti magazines europei e statunitensi, come Life, Stern, Observer, Paris Match, Times, Newsweek, Sunday Times, Epoca e L’Espresso.
Nativo di Pietrasanta, cominciò qui a guadagnarsi il pane come fotografo, tra le spiagge e gli studi di scultura, per poi trasferirsi a Londra nel 1958. Nella capitale britannica, base per più di trent’anni, la sua carriera di fotogiornalista ha avuto un impulso significativo dopo l’incontro con Simon Guttmann, il mentore di Robert Capa, con cui nacque una collaborazione intensa. Fotografò la campagna elettorale di Harold Wilson, futuro primo ministro per il partito laburista, i funerali di Winston Churchill, meritandosi un successo e una stima che lo portarono a diventare un referente di fiducia delle maggiori testate del momento. Primo fotografo occidentale indipendente ad essere ammesso nel Vietnam del Nord durante la guerra insieme a James Cameron, riesce a convincere Ho Chi-Minh a farsi fotografare guadagnandosi la copertina di Life Magazine.
Durante la guerra civile in Nigeria segue il conflitto nel Biafra e anche qui ha modo di produrre reportage potenti che saranno pubblicati ovunque e gli procureranno il premio Overseas Press Award.
Con lo scrittore Graham Greene documenta il Cile di Allende, poi il ritorno di Peron in Argentina, il conflitto in Israele, l’Irlanda del nord, l’Afghanistan, non c’è luogo di furore umano in cui non sia stato coinvolto profondamente per raccontare storie viste dal di dentro, sempre con grande umanità.
Molti reportage li svolge pericolosamente, da clandestino, come a Dakka chiusa ai giornalisti durante la guerra del Bangladesh, in Afghanistan durante l’occupazione russa e in Polonia nel 1981, dove fotografa di nascosto gli inavvicinabili soldati dell’Armata Rossa.
La guerra nella ex Jugoslavia la affronta con il banco ottico per mostrare le conseguenze nel territorio martoriato, e partirà per la Cecenia, nel 1995, con l’idea folle di installare uno studio di posa a Grozny per fare il ritratto dei guerriglieri che si oppongono all’armata sovietica e, naturalmente, ci riuscirà.
Tornato nella sua Toscana, si dedica a produzioni più tranquille, ma ogni tanto continua a sentire il richiamo della Storia. Nel 2015, con il Medio Oriente che si incendia sempre più, insieme a sua moglie Patricia parte per Kobane, la città siriana occupata dall’Isis e appena liberata.
Romano Cagnoni ha realizzato nella sua carriera 50 mostre personali, ha ricevuto molti premi e pubblicato 16 libri. Scompare il 30 gennaio 2018.
MARIO DE BIASI
Viaggio dentro L’isola
Courtesy Ilisso Editore
Un fotoreporter celebre dall’inesauribile energia.
La raccolta fotografica di Mario De Biasi racconta un percorso, avvenuto a più riprese, attraverso la Sardegna, in un arco temporale di vent’anni, 1955-1974, alla ricerca di visioni: paesaggi e squarci di vita, cose ed eventi, espressioni del lavoro e della festa. Mappa dei luoghi e itinerario dell’immaginazione.
Egli arriva in Sardegna da Milano a metà degli anni ’50 inviato dal settimanale Epoca per realizzare un servizio fotografico. Il viaggio è caratterizzato dalla specificità dei luoghi e degli ambienti, dai caratteri storici, artistici e antropologici. Varietà di forme e colori, di lavori e di feste di una “Sardegna quasi un continente”, come l’aveva definita Marcello Serra che accompagnò De Biasi e Alfonso Gatto in alcune tappe del viaggio.
De Biasi s’imbatte in una realtà sconosciuta: emerge la pulsione e la logica della ripresa. Egli non cade nel vecchio modello dei viaggiatori del Voyages en Sardaigne, affascinati dal mito del primigenio, del naturale. Non c’è memoria del luogo e dunque non c’è malinconia né incantamento bucolico. L’artista è libero da condizionamenti ideologici: non sente l’impegno di un’analisi fotografica che analizzi un processo di trasformazione sociale. Non rappresenta una condizione umana da mettere in rapporto polemico col potere: né protesta né denuncia. Libertà di sensazione e sentimenti, di intuizione e immaginazione nell’osservare la condizione umana per se stessa.
Mario De Biasi (Sois, Belluno, 2 giugno 1923 – Milano, 27 maggio 2013)
La sua prima personale è del 1948, passa al professionismo nel 1953 mediante l’inserimento nella redazione del periodico EPOCA. Per questa rivista realizza, in un arco trentennale, centinaia di copertine e innumerevoli reportages in ogni parte del mondo compreso lo sbarco sulla luna dell’apollo 11. Numerose sono le esposizioni alle quali partecipa o presenta individualmente in Italia e all’estero. Svariati i suoi workshop sul tema di come fotografare la natura attraverso un’osservazione ravvicinata e sul reportage. A documentare il suo impegno fotografico più di 80 libri. Ha scritto di lui Munari: “Ha fotografato rivoluzioni e uomini famosi, paesi sconosciuti. Ha fotografato vulcani in eruzione e distese bianche di neve al Polo a sessantacinque gradi sotto zero. La macchina fotografica fa parte ormai della sua anatomia, come il naso e gli occhi”.
Numerosi i premi di cui è stato insignito: nel 1982 il “Premio Saint Vincent” di giornalismo; nel 1994 a Spilimbergo, il “Premio Friuli-Venezia Giulia” e al Festival di Arles dello stesso anno viene premiato con altri dodici fotografi, come lui noti in ambito internazionale.
La sua foto “Gli italiani si voltano” è stata esposta, sempre nel 1994, al Guggenheim Museum di New York, all’interno della mostra The Italian Metamorphosis. 1943-1968, assurta a immagine guida dell’intera manifestazione.
Il leggendario fotoreporter oltre che maneggiare con disinvoltura le macchine fotografiche era altrettanto abile con i pennarelli colorati grazie ai quali trasferiva la sua creatività su fogli e carta riciclata, allegri ed espressivi soggetti al servizio anche dell’industria della ceramica, compresa la Cerasarda di Olbia.
Un mappamondo neorealistico che attinge da un composito lessico visivo che esprime efficacemente il suo senso di universale coralità.
Muore a quasi novant’anni il 27 maggio 2013, dopo aver ricevuto il Premio alla carriera dall’AIF nel febbraio 2013.
GIULIO DI STURCO
Ganga Ma
Ganga Ma (Mother Ganges) è il frutto di una ricerca fotografica decennale sul fiume Gange che documenta gli effetti devastanti dell’inquinamento, della industrializzazione e dei cambiamenti climatici. Il progetto segue il fiume per oltre 2.500 miglia, dalla sua sorgente nel ghiacciaio del Gangotri, situato nella catena dell’Himalaya, fino alla foce nel Golfo del Bengala, in Bangladesh. Il risultato è una riflessione filosofica per immagini che presagisce un futuro non troppo lontano, consentendoci di percepire l’incombenza di un mondo tossico e post-apocalittico.
Con Ganga Ma, Giulio Di Sturco tratta il fiume come un vero e proprio personaggio, una “entità vivente”, offrendoci un ritratto ravvicinato poetico e inquietante del Gange, che ci obbliga a riflettere sul grave impatto del cambiamento climatico e sulle devastanti conseguenze della produzione agricola intensiva, dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione lungo le sue rive. In mostra una selezione di fotografie che spaziano fra il distacco della fotografia documentaria e una risposta quasi pittorica alle condizioni ecologiche e atmosferiche del Gange. Grazie a un linguaggio poetico e sempre misurato e attraverso quella che può essere definita una “estetica dell’inquinamento“, il fotografo muove la sua lente sul disastro ecologico che affligge il fiume più sacro e venerato dell’India, il Gange.
Giulio Di Sturco ci invita a entrare nell’opera e dopo l’iniziale stordimento dell’immagine seducente e poetica, che rivela la maestosità della natura dalla prospettiva del fiume e delle sue rive, a vedere la sua tossicità, l’effetto devastante della industrializzazione ma anche dei cambiamenti climatici e dell’urbanizzazione.
Giulio Di Sturco (1979, Roccasecca – FR) vive e lavora tra Londra e Arles. Ha studiato presso l’Istituto Europeo di Design e Arti Visive di Roma prima di trasferirsi in Canada e poi in India, dove ha trascorso cinque anni a perfezionare il suo vocabolario visivo. La sua ricerca si concentra principalmente sulla società del futuro, alla luce dei cambiamenti ambientali e dell’evoluzione tecnologica in atto. Di Sturco collabora con numerose testate internazionali tra cui Financial Times, Vanity Fair, National Geographic, Wired e The New York Times. Tra i suoi riconoscimenti ricordiamo tre premi World Press Photo, i Sony Photography Awards, i British Journal of Photography International Awards e due Getty Grant. Il suo progetto Aerotropolis è stato tra i finalisti dell’Aesthetica Prize ed è stato nominato per il prestigioso Prix Pictet; mentre il suo progetto Athropocosmos e’ stato selezionato dalla Biblioteque Nationale de France per entrare a far parte della collezione permanente. Le sue opere sono state esposte in festival e gallerie di tutto il mondo e sono state acquisite da collezioni private. A giugno 2019 è uscita la sua prima monografia, Ganga Ma (GOST Books).
TOMASZ TOMASZEWKI
Gypsies different people just like us
“La mia intenzione era quella di raccontare, con un linguaggio visivo, la storia di una nazione senza stato, dispersa in quasi tutto il mondo capace di stabilire comunità vivide e uniche. I loro costumi, tradizioni e stili di vita sono poco conosciuti dal resto del mondo. Ho cercato di lanciare un appello alla tolleranza nei confronti di coloro i cui stili di vita, religione e rituali sono diversi dai nostri.
Le origini del popolo rom rimangono poco chiare. Un confronto della lingua che usano con i dialetti indiani sembra confermare l’ipotesi che provenissero dalla regione dell’India nord-occidentale, dopo averla abbandonata intorno al IX secolo. Le successive migrazioni zingare portarono attraverso l’Iran e l’Asia Minore fino ai Balcani dove, nel XIV secolo, i Rom costituirono una potente e numerosa comunità. Oggi, la popolazione Rom in Europa è stimata in circa 12 milioni – una considerevole maggioranza dei 16 milioni che vivono in tutto il mondo.
Tradizionalmente percepiti come estranei, circondati da diffidenza, sono sempre esistiti come gruppi isolati ai margini delle comunità europee in via di sviluppo – anche se il loro contributo al patrimonio culturale generale, specialmente nella musica, nella danza e in vari mestieri, è indiscutibile.
I miei viaggi sulle vite degli zingari di oggi hanno confermato la mia precedente convinzione che poco è cambiato per i rom. Sembra che non abbiamo ancora imparato la lezione della tolleranza verso le persone che vivono diversamente da noi stessi.
Prima di iniziare il mio progetto, ho dedicato diversi mesi a uno studio approfondito dell’argomento, giungendo alla conclusione finale che, il più delle volte, la nostra conoscenza del popolo rom proviene dai media – la fonte che è naturalmente incline a focalizzare la sua attenzione agli aspetti eclatanti, come la povertà assoluta, la violazione dei diritti umani o la criminalità. Il risultato è la nostra immagine frammentaria dei rom, spesso molto distorta e responsabile dell’immagine ingiusta e ingiustificata degli zingari agli occhi del pubblico.
Credo fermamente che il mio progetto spieghi l’uomo all’uomo. È rivolto a tutti, soprattutto ai giovani che, guardando i ritratti di ZINGARI, PERSONE DIVERSE COME NOI, possono meglio rendersi conto delle assurdità della xenofobia e dell’intolleranza.”
Tomasz Tomaszewski ha un dottorato di ricerca, dell’Accademia di Belle Arti di Varsavia ed è membro dell’Unione dei fotografi d’arte polacchi, il Visum Archiv di Amburgo, Germania e il National Geographic Creative di Washington D.C.
È specializzato in fotografia giornalistica e le sue foto sono state pubblicate su più importanti magazine, quotidiani e riviste di tutto il mondo tra cui National Geographic Magazine, Stern, Paris Match, GEO, New York Times, Time, Fortune, Elle, Vogue.
È anche autore di numerosi libri, tra cui Remnants: The Last Jewish of Poland, Zingari: gli ultimi; Alla ricerca dell’America, Al centro, Sorprendente Spagna, A due passi, travolti dall’atmosfera della gentilezza, cose che durano, Tutto può essere tutto, Zingari, Happy Land, Black Magic Woman, e ha co-illustrato oltre una dozzina di opere collettive.
Ha tenuto numerose mostre personali negli USA, Canada, Israele, Giappone, Brasile, Madagascar, Paesi Bassi, Germania, Francia, Spagna, Italia, Indonesia e Polonia.
Tomasz ha ricevuto numerosi premi polacchi e internazionali per la fotografia.
Da oltre trent’anni collabora regolarmente con il National Geographic Magazine, USA sul quale sono stati pubblicati diciotto suoi saggi fotografici.
Tomasz insegna fotografia in Polonia, Stati Uniti, Germania e Italia.
BENIAMINO PISATI
Lassù
In Valtellina, nel cuore delle Alpi, ogni estate le mucche vengono spostate dal fondo valle ai pascoli in altura (tra i 1500 e 2000 metri) dove la qualità e varietà dell’erba donano ai formaggi una qualità sopra la media. La lavorazione del latte in quota porta con sé difficoltà a causa dell’asprezza del territorio: non ci sono strade, spesso l’energia elettrica non arriva, gli alloggi sono umili. Occorre grande forza, sacrificio e dedizione.
Il mondo pastorale ha sempre avuto un ruolo centrale nella storia della civiltà, nella letteratura è sempre stato celebrato come idilliaco e spensierato. L’aggettivo bucolico viene dal greco boukolus, pastore di buoi. E’ stato ed è fondamentale per l’ambiente: senza gli alpeggi scomparirebbero i pascoli, molte forme di vita si estinguerebbero, aumenterebbero i dissesti idro-geologici, il territorio diventerebbe più povero, monotono ed inospitale e perderebbe completamente l’attrattiva turistica.
Ricerco i luoghi e le atmosfere che ho vissuto fin da bambino: il suono del latte munto che batte sul secchio di alluminio, i campanacci delle mucche, il vociare dei pastori per tenere a bada le bestie, l’odore acre del fumo durante la cottura del latte, le fronde degli abeti mosse dal vento.
In un mondo dominato dalla fretta, che ha perso il senso del ‘presente’ e trascura i segni del passato, Lassù esiste ancora un mondo rurale senza tempo, profondamente radicato nella cultura contadina alpina e che scandisce la vita di questa gente e delle sue vallate, importante non solo economico, grazie alla produzione di rinomati formaggi, ma soprattutto per gli aspetti storici e culturali che questo mondo conserva e rinnova, un patrimonio inestimabile che costituisce la memoria di modi di governo delle risorse naturali, di antichi saperi, di economie sostenibili.
Classe 1977, originario di Milano vive tra la Valtellina e l’Oltrepò Pavese, lavora come fotografo professionista freelance. È specializzato in reportage geografico con all’attivo oltre centocinquanta viaggi in diverse aree del mondo. Collabora attivamente con riviste ed agenzie del settore, dal 2009 organizza workshop di fotografia di viaggio in Italia e all’estero. Diversi riconoscimenti nazionali ed internazionali ricevuti tra cui due volte il primo premio al Travel Photographer of the Year nella categoria portfolio. Da oltre 10 anni sta documentando lo stretto rapporto tra uomo e ambiente negli alpeggi della Valtellina.
MARCO GAROFALO
Energy Portraits
Courtesy Fondazione AEM
Viviamo in un’epoca in cui i temi della produzione e del consumo sono fortemente connessi con i temi ambientali, economici ed etici. Raccontare per immagini il tema dell’accesso all’energia e della povertà energetica in Italia e nel mondo è una sfida tutt’altro che banale ma necessaria poiché le informazioni disponibili sono poche o di difficile comprensione.
L’impossibilità di accedere ai servizi energetici di base o non potersi permettere un sistema di riscaldamento o raffrescamento soddisfacente per il proprio benessere è un fenomeno che viene chiamato “povertà energetica”.
È un problema che nei prossimi anni potrebbe ulteriormente peggiorare, sia a causa dell’impatto che ha avuto la pandemia da COVID-19 sulla capacità di spesa degli italiani, sia per la crisi del conflitto russo-ucraino, sia perché si prevede che le politiche di transizione energetica per la riduzione dei consumi e dell’impatto ambientale dell’energia ne faranno alzare i prezzi.
In base agli studi dell’Osservatorio italiano sulla povertà energetica (OIPE), oltre 2 milioni di famiglie italiane vivrebbero già in povertà energetica, circa l’8 per cento del totale nazionale. “In sintesi, si tratta di un trilemma che nasce dalla compresenza di redditi bassi, abitazioni inefficienti dal punto vista energetico e alti costi dell’energia”, sottolinea Ilaria Bertini, direttrice del Dipartimento ENEA per l’Efficienza energetica.
Le periferie urbane sono inoltre i luoghi in cui la povertà energetica mostra con più evidenza le disuguaglianze ambientali e sociali, ma sono anche i luoghi dove l’attivismo sociale produce idee e soluzioni innovative e solidali atte a contrastare l’emarginazione e il degrado sociale.
Energy Portraits ed energETICA vogliono contribuire così a una migliore comprensione di questa realtà e della complessità delle sfide dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile 7 delle Nazioni Unite e offrire un corpo di lavoro che possa essere utilizzato a sostegno di eventi culturali di terze parti collegate agli SDG, mostre ed eventi di divulgazione scientifica.
Marco Garofalo